Si può cominciare sfogliando la nuova edizione di un celeberrimo capolavoro della fotografia, The Americans di Robert Frank, rivisitato per il cinquantenario, nel 2009, sotto la cura attenta dell'autore. Oppure affrontare Looking in Robert Frank The Americans (Steidl, a cura di Sara Greenough), il denso volume che analizza in modo "espanso" i materiali originali di questo classico e le sue ripercussioni sulla cultura visiva dei decenni successivi. O anche ripensare al saggio che una delle migliori scrittrici in lingua inglese viventi, Francine Prose, ha dedicato a entrambi i libri su «Harper's». Erano più di 24 mila all'inizio, le immagini che Robert Frank accumulò a metà degli anni Cinquanta grazie a una borsa di studio Guggenheim (in Italia una mostra di grande successo organizzata dal Gruppo 24 Ore ha reso possibile vedere molti scatti, l'anno scorso, a Milano: alcune foto le vedete in questa pagina). Erano migliaia anche le mirabili inquadrature di Eugene W. Smith, che applicò al suo "saggio fotografico" su Pittsburgh le qualità da opera-mondo dell'Ulysses di Joyce o di Sotto il Vulcano di Malcolm Lowry (che erano per lui quasi contemporanei al l'epoca). Basta tornare a questi esempi classici per porsi una domanda scomoda: perché i fotografi non si riappropriano di quel l'ambizione totale, di rappresentare un intero paese o un'intera città con i mezzi narrativi più avanzati, e perché i narratori non li aiutano, e non si fanno trascinare nel vortice esplorativo? L'inizio di una risposta comincia sui sedili posteriori di un taxi newyorkese.

I sedili posteriori dei taxi newyorkesi sono lievemente inclinati, e bastano uno scatto e una spinta per far scivolare giù dalle tasche un i- phone, una sera di gennaio. Quando sono stato richiamato dall'ufficio lost&found dei trasporti urbani mi hanno chiesto di presentarmi al commissariato della Cinquantesima per reclamare il telefono perduto. Era nero. Ce n'erano altri cinque, neri, dello stesso numero di gigabyte, nessuno dotato di segni particolari. L'ufficiale addetto mi ha chiesto come potevo dimostrare quale fosse il mio, visto che non ricordavo il numero di serie. Non me l'avrebbero mai restituito, se non avessi provato in modo inconfutabile che ero io, ero proprio io, il legittimo proprietario: dopo una lunga discussione, sono riuscito a convincerlo che bastava accenderlo, il mio telefono non aveva codice di accesso, questo avrebbe ristretto le possibilità. Uno dei suoi colleghi aveva il caricatore. Dei cinque i-phone, solo due erano in effetti privi di codice d'accesso. Ma come dimostrare quale era il mio? Chiedere di vederlo, non se ne parlava neanche: ci separavano un bancone, una divisa, e un regolamento. Così ho proposto al poliziotto di raccontargli l'intera sequenza delle fotografie che avevo scattato. Nessun altro poteva indovinare quella sequenza, nessun altro occhio poteva coincidere con lo sguardo dietro quegli scatti. La prima foto ritraeva una cena, la seconda e la terza anche, poi c'erano probabilmente immagini di un museo, poi il ritratto di un signore con la barba e di sua moglie; ancor prima un panorama visto dal finestrino dell'aereo, e così via. Il catalogo delle foto che presumevo di aver realizzato raccontava a ritroso la storia delle ultime settimane della mia vita – un memoir iconografico nel mezzo di un pasticcio burocratico. Ma anche, a ripensarci, qualcosa d'altro.

Quell'infelice e goffo tentativo di descrizione – indipendentemente dal suo esito – era una metafora convincente del rapporto instabile fra la memoria delle immagini e la narrazione, l'equazione complessa che regola la massa delle cose vissute e la massa delle cose viste. Il fatto di essere in America aveva solo accentuato in modo definitivo la sensazione di vicinanza tra quell'escamotage e una più ampia comprensione dei rapporti fra la pratica del vedere, la pratica del ricordare ciò che si è visto e la pratica del raccontarlo agli altri. Questa serie di azioni e di riflessioni riassume il perimetro dell'attività fotografica. E c'entrava forse anche il fatto che proprio allora, proprio in quei giorni, fosse uscito su «Harper's» il saggio di Francine Prose che recensiva la riedizione del classico di Robert Frank, in Italia tradotto dalla meritoria Contrasto, che sotto la guida di Roberto Koch resiste eroicamente, forse stolidamente, agli assalti che la tecnologia e la storia apportano di mese in mese alla pratica fotografica com'era una volta. C'entrava magari pure questo, il convincimento che siamo nel cuore del declino dell'era fotografica e al principio dell'era bio-fotografica, in cui gli strumenti di rappresentazione visiva della realtà spunteranno come appendici epidermiche, cartilaginee, digitali e cellulari. C'entrava persino la chiara evidenza che – oltre l'introduzione di Jack Kerouac a The Americans, e il febbrile stato di collaborazione letteraria cui Frank sottopose il proprio lavoro successivo – quasi tutti i più interessanti autori letterari degli ultimi cinquant'anni, a ogni latitudine possibile, hanno intrattenuto relazioni virtuose con l'obiettivo, le immagini, il commento o l'interpretazione delle immagini: non solo i classici Roland Barthes e Susan Sontag, o il fondamentale Christopher Isherwood che scrisse I am a camera (non è un caso che nessun fotografo abbia mai partorito affermazione altrettanto radicale), ma anche Truman Capote (suoi i testi del magnifico Observations di Avedon), e Robbe-Grillet, e W.G. Sebald, Javier Marìas, Goffredo Parise, naturalmente John Berger, e una notevole lista che potrebbe continuare ben oltre lo spazio consentito.

«The americans suona ancora oggi come un accurato ritratto di cosa significa vivere qui, in America», scrive Francise Prose. «Come un classico della letteratura, come un capolavoro di pittura descrittiva, The Americans ha qualcosa da dire su cosa significa essere umani e vivere qui da esseri umani, inseriti in una data cultura, in un dato luogo. La storia raccontata da Frank è scandita da temi e capitoli, la narrazione si muove nel tempo e nello spazio, ma ogni tentativo di rappresentarla con parole si ridurrebbe a un mero elenco di cosa si vede in ciascuna delle ottantatrè immagini che lo compongono, senza avvicinarsi neppure al centro della ellittica orbita che disegna il suo elusivo percorso. Ecco perché ci piace ritornarci sopra, riavvicinarci a questo ammaliante capolavoro come se fosse una poesia che non possiamo smettere di rileggere».

Robert Frank, un ebreo fuggito dal l'Olocausto e ossessionato dal desiderio di dipingere un paesaggio più completo possibile del paese che l'aveva accolto, ha fornito un modello esemplare a tutti gli scrittori e i fotografi che devono cimentarsi con la rappresentazione della realtà. Perché non iniziare dall'Italia, perché non provare a istruire una pratica di collaborazione e dialogo fra fotografi e romanzieri, nel segno di un'indefessa ricerca di verità, della complessità del vero che nell'era dell'Informazione, come la chiamerebbe Martin Amis, non è mai stato così complesso anche se forse non è mai stato meno "vero"?

Forse fotografi e scrittori potrebbero lavorare nel solco di James Agee e di Walker Evans, autori in piena autonomia e coordinamento di Let us now praise famous men. Forse si potrebbe riprendere la storiella dell'i-phone perduto, e mai ritrovato, perché il poliziotto non era del tutto convinto della ricostruzione a memoria dell'archivio digitale nascosto dentro il telefono. Ma è possibile migliorare il modello: è possibile che ogni fotografo trovi nel suo scrittore – nel suo James Agee, nel suo Kerouac – un contraltare poliziesco e incorruttibile, il censore del ricordo e delle potenzialità. Di tutte le immagini che ha realizzato e di tutte quelle che avrebbe potuto realizzare.

 

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